Solo qualche anno fa il fenomeno coinvolgeva poche grandi imprese. Oggi sta prendendo sempre più campo anche tra piccole e medie aziende.
Negli Stati Uniti, in Europa e lentamente in Italia. Così, quella che sembrava una moda manageriale si è trasformata in una prassi consolidata nel mondo imprenditoriale. Perfino conveniente, al fine di moltiplicare il profitto.
Viviamo nell’era in cui l’impresa indossa in misura sempre crescente i panni dell’etica. A fare proprie le regole non scritte della tutela dell’ambiente e della lotta al cambiamento climatico, del rispetto della salute del consumatore, della rivalutazione dei salari dei dipendenti.
Nulla a che fare col buonismo in versione economica: siamo di fronte alla nuova frontiera dell’impresa etica, della responsabilità sociale dell’impresa.
Ma è un processo tutt’altro che compiuto. Negli Stati Uniti l’utopia si è trasformata già in realtà. Sono 181 gli amministratori delegati di multinazionali che hanno affrontato la questione stipulando un patto, lo scorso agosto.
Il patto tra etica e logica del profitto. Lo hanno siglato perché consapevoli ormai del fatto che seguendo una condotta etica i margini degli utili sono destinati ad aumentare: il mercato ha modificato le proprie aspettative e il consumatore è sempre più attento a quel che acquista, a come e da chi è stato prodotto un determinato bene.
In italia questa consapevolezza sta piantando radici. Parecchi grandi marchi hanno fatto proprio e non da ora il cosiddetto codice etico, benché non vincolante.
Ma tutto qui è rimesso alla discrezionalità degli amministratori dei grandi marchi, in qualche caso spinti fino al punto da fare di quelle regole (a cominciare dal rispetto dell’ambiente e dalla riduzione delle emissioni) una sorta di brand aziendale.